giovedì 30 maggio 2013

Scacchi - Marco Bertoli



 Legendary Fantasy Contest!

Scacchi

Alla vista dell’amena radura che si era spalancata all’improvviso tra la densa vegetazione della foresta conosciuta come Bosco Intricato, Giovannarturo Cuore ardito di Rocca Alta non riuscì a trattenere un lungo sospiro di sollievo. Un’espressione assai poco consona a un nobile cavaliere errante par suo, ma più che giustificabile dopo tre ore di cavalcata tra alberi e cespugli così abbracciati tra loro da richiedere talora l’intervento della lama di Zanna bianca, la sua spada, per aprirsi il cammino.
Con un agile volteggio smontò dalla massiccia sella che coronava la possente groppa di Fulmine di battaglia, il fedele destriero, e si stirò le membra indolenzite, esibendo senza remore una voluttà ancor più indecorosa.
Una puzza esecrabile di orina fetida gli straziò le narici: sgradevole ricordo della Viverna che si era ostinata a bloccargli il passaggio su un accenno di sentiero. Per fortuna al bordo del praticello fiorito gorgogliava con esuberante allegria un rivo la cui acqua fresca attirò il giovane ventunenne come il miele ammalia le api. Una lunga bevuta, una lavata all’armatura d’acciaio, quindi si sdraiò sull’erba, la schiena appoggiata alla corteccia di una quercia forse millenaria, lasciando che fosse il sole ad assumersi il servile compito di asciugare la corazza. Strappò un delicato fiore azzurro e si mise a succhiarne meditabondo lo stelo intanto che la mente si avventurava in lande piene di vergini da salvare e draghi da trafiggere con la lancia.
«Ti ha mai detto nessuno che sei un grande maleducato?». La domanda posta da una voce calda e sensuale eppure vibrante d’illibata innocenza lo colse di sorpresa. Si rizzò seduto di scatto, la mano già pronta sulla tiepida elsa dell’arma.
«Scusa. Non era nelle mie intenzioni spaventarti» continuò la voce sfociando in una sommessa risata dal timbro infantile.
Gli occhi concentrati in un rapido giro del ristretto orizzonte boscoso della radura, Giovannarturo esclamò fiero: «Non è così facile incutermi paura. Piuttosto, orsù, mostratevi, così che io possa vedere in volto chi ho involontariamente offeso».
Un fruscio appena percettibile alla sua destra ed ecco che davanti ai suoi occhi apparve una giovane donna… Beh, no. Era di certo una creatura di sesso femminile, ma non una donna. Alta, snella, capelli color dell’oro lunghi sino alla vita, orecchie deliziosamente appuntite, ricoperta da un velo che partiva appena sopra il piccolo seno e finiva neppure a metà coscia, per giunta sottile quanto una ragnatela – unica concessione al pudore alcune corolle rosse inserite nei punti strategici –, la pelle irradiava un’ipnotica luminescenza magica. Impossibile sbagliarsi: era una Sidhe, un’appartenente al Popolo delle Colline.
Il cavaliere si mise subito in piedi e omaggiò la nuova arrivata con un profondo inchino presentandosi: «Giovannarturo Cuore ardito di Rocca Alta al vostro servizio, madamigella».
L’elfa rispose con un’aggraziata riverenza e un pizzico d’ironia nella voce dalla sonorità cristallina: «Bláthnaid… e basta, cavaliere».
Imbarazzato, il paladino chiese: «Di grazia, madonna, perché mi avete definito maleducato?».
«Semplice, mio baldo guerriero» spiegò la ragazza inasprendo di colpo il tono che vibrò saturo di minaccia come un temporale che rotola sulle cime dei monti. «Siete entrato in casa d’altri privo di acconcia permissione e avete agito irriguardosamente, uccidendo chi non vi aveva cagionato alcun danno».
Giovannarturo si guardò intorno, l’espressione ebete e stupefatta, poi comprese di colpo: «Abitate in questa radura? E intendete riferirvi al fiore che ho masticato?».
«Sì a entrambe le domande» confermò dura Bláthnaid. «In base alle nostre leggi potrei trasformarvi tosto in qualcosa di estremamente disgustoso, tuttavia siete un bel giovanotto e mi dispiacerebbe che trascorreste il resto della vostra vita nella pelle di un brutto rospo». Le labbra sottili dell’elfa s’incresparono in un risolino divertito nell’udire il cavaliere deglutire rumorosamente, quindi costei lo interrogò: «Sapete giocare a scacchi?».
Il suo interlocutore avvertì un brivido gelido strisciargli lungo la schiena, spalmandola di uno spiacevole strato di sudore gelido. Conosceva a malapena le usanze dei Sidhe, tuttavia era ben nota a tutti la loro passione e abilità nel gioco degli scacchi. In ogni modo, era comunque una possibilità di scampo e si aggrappò a essa come il naufrago che affoga alla trave che galleggia. Annuì.
«Benissimo!» esclamò la creatura battendo felice le mani affusolate. «Allora accomodiamoci e diamo inizio alla tenzone».
Il tempo di accoccolarsi sul prato e una scacchiera apparve per magia nello spazio che separava i due contendenti. I pezzi non erano i classici cui era abituato, si accorse con sconcerto Giovannarturo: quelli di Bláthnaid raffiguravano, infatti, personaggi o membri della sua razza mentre a lui era toccato un gruppo assortito di mostri, alcuni a lui ignoti, le cui capacità di movimento ricostruì in base alla posizione assunta sulla tavola da gioco.
«Pronto?» chiese la sua avversaria.
«Pronto» rispose, ostentando una sicurezza che era ben lungi dal provare.
L’elfa avanzò uno gnomo, il paladino contrappose un goblin. Dopo la quinta mossa, la Sidhe commentò con una lieve sfumatura di rimprovero: «Mi state copiando, messere».
Era vero, ma il cavaliere si schermì: «La vostra è un’apertura classica, madamigella: le mie sono le contromosse codificate».
La ragazza lo squadrò con occhi verdi come un prato a maggio e scosse la testa con compatimento.
Alla sedicesima mossa, un terzo dei pezzi già eliminati dai nemici, Giovannarturo comprese di non avere la minima speranza di vincere: un tragico destino da rospo lo attendeva. In un estremo tentativo di difendere l’ammasso gelatinoso che rappresentava il suo re, indietreggiò la statuina di un Minotauro. Il corrispettivo della Torre, ahimè, gli scivolò tra i polpastrelli umidi per la tensione e, dopo aver ruzzolato sui quadrati bianchi e neri, cadde per terra.
Nel mentre che allungava la mano per raccoglierlo, un’espressione d’imbarazzo sul viso scarlatto, un muggito lacerante squarciò l’aria: «Libero!». Allibito, i suoi occhi sgranati assistettero alla trasformazione della miniatura che crebbe di dimensioni sino a diventare un essere possente, alto più di due metri, le corna aguzze come lance e sbuffi di fiato emessi da froge che ribollivano di frenesia.
«Grazie, uomo, per avermi sciolto dall’incantesimo che m’imprigionava. Per mostrarti la mia gratitudine ti divorerò dopo che mi sarò sbarazzato di questa perfida strega!» furono le parole cavernose che uscirono da una bocca irta di denti che brillavano sinistri.
Il Minotauro mosse un passo verso Bláthnaid che, nonostante l’accadimento imprevisto, stava già lanciando un sortilegio protettivo. Un rabbioso manrovescio della violenza di un ciclone mandò la ragazza a volare lunga distesa a qualche metro di distanza. Un debole gemito di sofferenza seguì al brusco atterraggio.
«Sono trecento anni che aspetto questo momento, maledetta sgualdrina!» mugghiò eccitato l’essere dalla testa di toro, accostandosi al corpo semisvenuto. «Non vedo l’ora di affondare le mie zanne nelle tue carni morbide e gustare il sapore caldo del tuo sangue».
«Fossi in te, ci penserei due volte, bestiaccia!». La voce gelida risuonò dietro le spalle muscolose del mostro.
Costui voltò il capo con deliberata lentezza e guatò il guerriero che, spada sguainata, lo sfidava. «Non t’intromettere, uomo! Potrei anche decidere di lasciarti in vita se le carni di questa malvagia fattucchiera mi sazieranno a sufficienza» ammonì cupo.
«Montjoie! Sant’Eufrasto! Ch'io perisca se non aggredisco!». Il veemente grido di battaglia di Giovannarturo fu la risposta.
Un urlo belluino e il Minotauro si scagliò contro il cavaliere che, schivato con agilità l’assalto, ferì l’avversario a un braccio peloso. L’obbrobrio cornuto lo colpì a sua volta con una zampata che se non gli staccò di netto la testa dal collo fu soltanto perché riuscì a schivarla parzialmente con un salto all’indietro. La botta lo raggiunse comunque a una spalla che ne rimase intorpidita. Scrutandosi torvi, i due contendenti si presero un attimo per valutare la situazione: entrambi conclusero che il rivale era più agguerrito del previsto.
Dopo qualche minuto di girotondi a vuoto e inutili scambi di attacchi e parate, il mostro sbuffante propose: «Tregua».
Ansimando per la fatica, il paladino acconsentì. «Com’è che sei finito su quella scacchiera?» chiese poi, tanto per intavolare una forbita conversazione durante la pausa.
«E’ presto detto. Me ne camminavo tranquillo per la foresta pensando ai fatti miei quando quella là è sbucata all’improvviso fuori da un cespuglio blaterandomi contro: Mi serve un pezzo per giocare a scacchi. Do chorp tar d'anam istigh ficheall!... PUFF!... Un attimo dopo ero diventato una statuina vivente in mezzo a tante altre».
«Vuoi dire che anche gli altri pezzi sono?…».
«Sì. Persino quelli della sua stessa razza. Sembra una bella ragazza, dall’aspetto fragile e innocuo, in realtà è una maga scellerata che ha più di mille anni!... Beh, io sono pronto per ricominciare a battersi».
Giovannarturo era in procinto di rimettersi in guardia quando il suo stomaco brontolò per la fame: era dalla sera prima che non mangiava nulla. Un folle pensiero gli balzò in capo. «Senti, così, per curiosità: la carne di Sidhe è commestibile per noi esseri umani?».
Due rotondi occhi bovini lo fissarono perplessi, poi l’equivalente di un compiaciuto sogghigno arricciò le grosse labbra scure del Minotauro: «Mi chiedi se è commestibile? Per De-da-loth! Chi di voi l’ha assaggiata arrosto sostiene che è più saporita e succosa di quella di un cinghiale bello grasso».
«Allora sai che ti dico? Tu fai quello che devi con lei, io nel frattempo vado a raccogliere la legna per il fuoco» concluse il cavaliere, massaggiandosi la spalla dolorante. «Oltretutto mi voleva trasformare in un batrace».

1 commento:

  1. Simone Lari: Una partita a scacchi (come anticipa il titolo) piuttosto particolare. Forse mi sarei aspettato un finale e un dialogo di chiusura un po’ più di effetto, comunque non male.

    Maddalena Cioce: Un racconto molto particolare. Discretamente corretto, anche se scritto utilizzando alcune forme auliche (per rendere l’effetto “cavaliere d’altri tempi”) che hanno un po’ appesantito i dialoghi. Ho apprezzato molto il finale non convenzionale, che mi ha fatto morire dalle risate.

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